TORINO. E’ sacrosanta la decisione del Comitato Olimpico statunitense di modificare il suo statuto in merito alla politica di non-discriminazione dove ora si legge “E’ richiesto di rispettare i diritti di tutti gli individui ad un trattamento equo, libero da discriminazioni sulla base della razza, colore, religione, sesso, orientamento sessuale, età, nazionalità”. L’inserimento dell’orientamento sessuale nella lista delle possibili discriminazioni, lista esemplificativa ma non esclusiva, è la novità. Quello che fa pensare non è il principio, che abbiamo già detto essere sacrosanto, ma il momento della sua introduzione.
Sull’onda dei Campionati Mondiali di Atletica di Mosca e delle leggi omofobe della Russia di Putin, si è più volte alzata la protesta di atleti, federazioni e un paio di mesi fa persino il presidente Obama ha ritenuto di intervenire affermando “ritengo che Putin e la Russia debbano avere un ruolo nel garantire che le Olimpiadi procedano senza problemi e ritengo che comprendano che molte delle nazioni partecipanti non tollererebbero che gli gay e lesbiche siano trattate in modo diverso. Sono atleti, saranno là solo per gareggiare”. La “macchina da guerra” americana si è mossa addirittura perchè venga modificato il Charter olimpico tranne accorgersi con colpevole ritardo che nel suo statuto nulla era scritto a garantire le uguali opportunità per i diversi orientamenti sessuali.
E’ questo focus ad orologeria che fa pensare; è pur vero che il fine può giustificare i mezzi, ed in questo caso il fine è corretto ma modificare lo statuto a quattro mesi dai Giochi di Sochi senza mai averlo pensato in precedenza quanto meno fa pensare ad una possibile strumentalizzazione di una lotta giusta per fini di politica sportiva, una strumentalizzazione della quale il mondo omosessuale farebbe volentieri a meno.
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