MILANO. Io l’ho visto dal vivo entrare nella leggenda delle Olimpiadi. Plushenko è un artista, un grande artista, oltre che l’immagine più bella della parola “pattinaggio” sulle lame da 0,8 e sulle lastre di ghiaccio. Tutto quello che ha fatto è stato un gradino sopra lo sport, arte vera, sincera, sublime. Eugenio, amatissimo in Italia, va messo per doni del cielo e tecnica nella galleria dei miti addirittura trasversali. E’ stato ed è come Van Gogh, come Monet: unico, tormentato, aggraziato, particolare. Non si riesce nemmeno a contenere dentro la storia dei Giochi o dentro il perimetro di una pista. Plushenko è Nurejev, ballerino e atleta allo stesso tempo, capace di fare ciò che è vietato ai normali, ma di farlo sembrare estremamente normale. Il suo occhio sicuro di Torino 2006, quello inquadrato a metà dalla regia internazionale prima dell’esibizione che lo vide tuffarsi nell’oro, è diventato gonfio di lacrime e tristezza. Strano, ma oltre a stringermisi il cuore per questa “morte sportiva” del mito, ho pensato a un’altra cosa: è giusto così, per gli immortali, la caduta è sempre stata verticale. Questo giorno triste, il giorno del dolore che Eugenio ha, è il corretto completamento del suo romanzo. Fosse stato oro, sarebbe stato scontato. Così è da film.
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