Questa volta non è d’oro, ma il valore è, probabilmente, ancor più grande.
Le Olimpiadi – lo dice lei stessa – è il luogo dove i sogni di un bambino diventano realtà; talvolta basta anche solo esserci,
come in tanti, d’altra parte, pensavano di derubricare l’esperienza a Pechino di Sofia Goggia.
Ci sono però storie – e lo sport ne possiede le pagine più luminose – capaci di essere continuamente riscritte,
dove il sudore, la fatica, il talento, la costanza, raggiungono una dimensione diversa, dove a tutto quello che natura ha regalato e a tutto ciò che il duro lavoro ha permesso si aggiunge qualcosa di intangibile, un’ anima, una spinta interiore che rompe i paradigmi dell’uomo comune e lancia ad una sorta di esaltazione psicofisica, atletica, sportiva, umana.
Ci vedo tutto questo e molto altro dietro alle parole, a caldo, di Sofia Goggia: “Viaggiavo con una sorta di luce“ dirà al termine di una discesa libera disputata a 23 giorni dalla lesione parziale del legamento crociato e dalla frattura (seppur piccola) al perone.
Quella luce di chi fa della capacità di resilienza una freccia, fosse anche l’ultima, al proprio arco.
Quella di chi si isola dal mondo, un mondo pieno di voci, troppe voci, di rumore di fondo, di facili giudizi.
Quella che traccia la differenza da chi si accontenta anche solo di esserci e chi pensa che esserci e vincere sia ancora più bello.
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