La leggenda di Zeno

STORIE. Sono trentasette le medaglie d’Oro italiane alle Olimpiadi invernali e Olympialab, seguendo il rintocco del conto alla rovescia verso la Cerimonia di Apertura, vi propone ogni giorno il loro racconto: non pura cronaca ma una lunga storia sul filo dorato di 56 anni di Giochi Olimpici.

 

La leggenda di Zeno

Zeno ColòInterno notte: una cameretta in un rifugio di montagna a 150 chilometri da Oslo, a poche centinaia di metri dove il giorno che verrà sarà l’ultimo appuntamento con l’obiettivo di una vita, la vittoria di una Olimpiade, gli anni ormai sono 32 e lo Slalom e il Gigante gli hanno portato solo due quarti posti. A fargli compagnia l’amico cantore, Rolly Marchi, per il quale ha fatto sistemare una brandina, e le sue Nazionali Super. Nella notte insonne Zeno Colò vede passargli davanti agli occhi il film di una vita vissuta a tutta velocità, spesso contromano. La sua infanzia sulle pendici dell’Abetone, una fila di case tra Modena e Pistoia, le migliaie di giornate trascorse nella foresta ad aiutare il padre, valente boscaiolo che è tra i migliori a lavorare i tronchi da inviare a Carrara per le slitte dei grossi blocchi di marmo. Da piccolo lo aiuta trasportando a valle i tronchi, poi viene promosso, utilizza anche lui l’accetta per colpire a ripetizione fino a far cadere i faggi. Nel poco tempo libero si arrampica nelle stesse foreste e si getta verso valle a capicollo con rudimentali sci di legno sotto i piedi, i primi glieli intagliò suo padre da qualche avanzo di magazzino quando aveva quattro anni. A 14 anni (nel 1934) le prime gare, l’anno dopo la chiamata nella nazionale giovanile e le prime sottili diffidenze vissute sulla propria pelle, che presto diventa irsuta pellaccia, da parte di un mondo che si ferma alle Alpi.

Ricorda i primi titoli di giornali, 14 anni prima: a San Candido aveva vinto la Discesa Libera e lo Slalom dei Campionati nazionali dei Giovani Fascisti. E i gerarchi attendono un elogio del Duce e dell’Italia fascista, le parole gli risuonano nelle orecchie a mille chilometri di distanza nel gelo della notte norvegese, “Io ho vinto e sono contento per il mio Abetone”, il suggeritore di regime gli bisbiglia “..e per l’Italia di Mussolini”, e lui con la franchezza del diciottenne contromano risponde “io non so se il mi’ Abetone sia di Mussolini. Io sono contento, questo sì”. Arrivano le mille discese con l’aria in faccia e tra i capelli, le vittorie tra i grandi.

Il sonno non arriva a Norefjell e l’ennesima sigaretta gli ricorda il primo appuntamento mancato con la gloria. Nel 1941 Cortina aveva organizzato i Campionati Mondiali, la guerra era già una realtà, non c’erano gli sciatori dei paesi che combattevano contro le forze dell’Asse ma non c’era nemmeno lui al quale furono preferiti quattro discesisti del Nord. Ma fecero un errore, gli fecero fare l’apripista giù dalle Tofane e qualcuno si prese la briga di cronometrare la sua discesa. Annunciano il suo tempo come il secondo assoluto. Ma poi si saprà che quel giorno fu il migliore, più veloce anche del grande tedesco Jennewein.

La notte non finisce mai… Sembra una di quelle notti di dieci anni prima, nel Nucleo Pattuglie Sci Veloci della Scuola militare di Aosta, nell’albergo di Cervinia con il cugino Agostino, Roberto Lacedelli, Silvio Alverà, il meglio degli sciatori e degli scalatori come Emilio Comici. Arriva l’8 settembre e con tutti gli altri sale a Plateau Rosà, prende gli sci in dotazione e scende verso la Svizzera, Zermatt. Un’altra lunga notte verso l’ignoto all’Hotel Monte Rosa dove si presenta un generale dell’esercito svizzero. Niente quarantena per gli ufficiali italiani ma l’internamento a Murren, di fronte allo Eiger, negli alberghi della cittadina che ha ospitato due edizioni dei campionati mondiali e dove chi li conosce indica con il dito politici, intellettuali, professori universitari come Giorgio Strehler o Luigi Einaudi. Ma quello che conta è sciare. A Wengen, mezz’ora a piedi, vive Karl Molitor con il quale ha gareggiato negli ultimi anni e Karl da vero amico si prodiga per far partecipare gli italiani alle attività dello sci club locale, allenarsi e gareggiare. Si lavora, come tutti nel campo, e si scia. Quante gare vinte usando il soprannome di Blitz perchè la famiglia all’Abetone non avesse guai.

Colò

Certo che manca solo una medaglia olimpica. A St.Moritz quattro anni prima fu un disastro, la voglia di strafare e un pugno di mosche in mano. Però nel 1950 ad Aspen sono arrivati i trionfi ai Campionati Mondiali: primo nella Discesa Libera e nel Gigante, secondo nello Speciale. Gli americani impazziti che offrono contratti da nababbo per rimanere lì ad insegnare lo sci. Le vittorie ai Campionati Americani e il ritorno in Italia. La voglia di appendere gli sci al chiodo per le polemiche con la Federazione e con la stampa che lo incolpa dei troppi dollari guadagnati nei due mesi oltreoceano, il dolce ricordo della Balilla che all’Abetone con una colletta gli hanno fatto trovare.

Tra un po’ suonerà l’inutile sveglia per i preparativi ma un viso appare alla mente, quello sfrontato ragazzo dai capelli rossi di Cortina, Eugenio Monti, che a Chamonix gli ha fatto vedere i sorci verdi e che negli allenamenti a Sestriere, giù dal canalino di Banchetta, si è distrutto le ginocchia. Era dicembre, legamenti saltati. A quel “rosso volante” che è stato più veloce di lui anche sulle Tofane ha persino regalato i suoi sci.

Sono le sei, è ora di alzarsi. Con l’amico Rolly si esce a vedere la neve. Sono scesi cinque centimetri sul fondo ghiacciatissimo. Un caffè e poi il rito della sciolinatura. Bilgheri Mittel, sciolina da 0 a 4 gradi. La prima sigaretta del nuovo giorno che si confonde con l’ultima della notte insonne, il secondo caffè e la vestizione: la guaina aerodinamica, i pantaloni allacciati sotto le ginocchia. Zeno è il quinto a scendere, arriva al cancelletto di partenza con la Nazionale Super accesa, il medico gliela getta via e lui si lancia nella corsa verso l’alloro di Olimpia nella pista piena di salti e buche con passaggi stretti che sfiorano pericolosamente gli abeti. 2’30”8 il suo tempo al traguardo, “Mi pare di avercela ancora fatta” sono le sue prime parole. Uno dopo l’altro arrivano i rivali più pericolosi ed ogni volta è un sospiro di sollievo. L’ultimo quando arriva l’idolo di casa Eriksen. Tutti cercano il “matto” che pensa subito a casa, “Sono contento, però è stata dura. Sono contento anche per la mia famiglia. Chissà come saranno felici lassù sull’Abetone”. Si schernisce, “Ho avuto fortuna”, ma il francese Couttet lo incorona “Nessuna fortuna, hai vinto perchè sei Zeno”. Due ore dopo scrive una lettera che affida all’amico Rolly Marchi che la pubblicherà sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport, è per Eugenio Monti e si chiude con queste parole “A te lascio i miei sci, la mia maglia, le mie medaglie e l’affettuoso augurio che le tue gambe ritornino quelle dell’anno scorso. Quelle di Chamonix e di Cortina, per intenderci”.

(2. continua)

 

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